PFAS, un acronimo che potrebbe risultare di oscuro significato ai non addetti ai lavori, ma che rappresenta, specialmente in alcune regioni – Veneto e Piemonte in testa –, un problema ambientale e sanitario non più rimandabile.

Le sostanze perfluoroalchiliche (PFAS) sono una vasta famiglia di composti chimici impiegati a partire dalla seconda metà del secolo scorso in svariati settori industriali come, ad esempio, nella produzione di schiume antincendio e detergenti, nella filiera della concia delle pelli e nella impermeabilizzazione di rivestimenti e di tessuti tecnici. A fronte delle loro spiccate caratteristiche oleo ed idrorepellenti, essi hanno un’elevata persistenza nella biosfera (acque, terreni, animali) e, conseguentemente, possono venire in contatto con l’uomo. Gli effetti sanitari dovuti all’esposizione ai PFAS sono ancora oggetto di indagine scientifica, ma quel che è certo è che le patologie correlate – tumori agli apparati endocrino ed urogenitali, malattie tiroidee, ecc. – possono manifestarsi anche a distanza di decine di anni. Perdipiù, queste sostanze sono bioaccumulabili, ossia tendono a insediarsi nel materiale biologico e ad aumentare progressivamente di livello con l’esposizione ripetuta, anche se modesta.

Da qui la necessità di monitorare puntualmente acque e siti contaminati ed i meccanismi con cui i PFAS entrano in contatto con l’uomo. L’inquinamento da PFAS deve essere affrontato su due piani interconnessi: tecnico e normativo. Dal punto di vista tecnico, si rende necessario approntare opere di messa in sicurezza e di bonifica dei siti inquinati, allo scopo di rimuovere/confinare i PFAS. Sotto il profilo normativo e della prevenzione è fondamentale redigere delle linee guida per definire delle soglie di inquinamento tollerabile nella biosfera, compatibili con la salute umana. Relativamente al secondo aspetto, nell’ultimo decennio e soprattutto laddove il tema dei PFAS è maggiormente sentito, le amministrazioni regionali hanno legiferato in materia e, con il supporto delle agenzie locali per la protezione e prevenzione dell’ambiente, hanno stabilito dei valori soglia di inquinamento da PFAS nelle acque di falda e dei corpi idrici superficiali.
Tuttavia, le acque costituiscono solo una porzione della biosfera interagente con l’uomo e potenzialmente soggetta ad inquinamento.
I terreni ad uso agricolo, infatti, possono rappresentare un possibile serbatoio a partire dal quale i PFAS sono in grado di contaminare l’organismo umano.

Le fonti di inquinamento da PFAS dei terreni possono essere svariate ed includono, tra le altre, lo spargimento di fanghi organici di depurazione e di compost e lo stesso impiego di acqua di falda ad uso irriguo. Sfortunatamente, però, la legislazione vigente non fornisce alcuna prescrizione in merito, né sul piano quantitativo (ossia valori di soglia analoghi a quelli sviluppati per le acque), né sul piano metodologico.

È possibile colmare questo vuoto normativo attraverso un rigoroso studio scientifico che individui e quantifichi i possibili meccanismi di trasferimento dei PFAS dal terreno all’uomo (ad esempio tramite la catena alimentare) e, sulla base delle dosi giornaliere tollerabili (DGT), definisca i corrispondenti limiti nel terreno, a salvaguardia della salute umana. I risultati dell’indagine possono costituire un solido supporto per tutti gli operatori della filiera dello spargimento di fanghi/compost che vogliano praticare la propria attività in accordo con le migliori pratiche agronomiche ed ambientali.

 

Dott. Chim. Edoardo Agusson

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