L’industria dei prodotti di “chimica fine”, se includiamo i prodotti farmaceutici, è molto variegata. Si tratta di prodotti di sintesi o di estrazione e relative formulazioni. I quantitativi vanno da produzioni a livello di grammi a centinaia di tonnellate ed oltre, con un intervallo di prezzi che va da 10€ o meno fino a valori superiori al milione di euro.
Diversi anni fa, il prof. Sheldon, introducendo la sua metrica, basata sul fattore E (Environmental factor), sottolineò che l’industria dei prodotti di “chimica fine” arriva a produrre un quantitativo di scarti, con una forte incidenza da parte dei solventi usati, che va dai 4 kg fino a valori superiori ai 100 kg per 1 kg di prodotto! Perché? Qualche attenuante? A parziale giustificazione è da sottolineare che in questo settore industriale solitamente ci sono: a) produzioni spesso di scala piccola-media; b) utilizzo di reattori batch multifunzionali e spesso non adeguatamente dimensionati; c) sintesi che richiedono più passaggi (il numero di passaggi per un API (Active Pharmaceutical Ingredient) è solitamente compreso tra 6 e 8; d) la vita commerciale del prodotto è relativamente breve-media; e) il tempo per lo sviluppo di un processo produttivo (in particolare per i nuovi farmaci) è molto breve; f) le specifiche e le regole di produzione sono molto severe per ottenere prodotti ad elevata purezza; g) spesso vincoli di proprietà intellettuale impediscono di migliorare un processo produttivo da parte di terzi. Inoltre, esiste una resistenza ad utilizzare reazioni e metodiche nuove non solo per i ricercatori ma soprattutto per la dirigenza industriale che ha paura di investire in risorse, aggiornamenti professionali, competenze esterne e multidisciplinari e, soprattutto, in apparecchiature e deve fare i conti con i costi ed i tempi necessari perché si crei il know-how necessario e la sua applicabilità a più prodotti.
Una frase che ho sentito spesso durante il mio lavoro di consulente quando proponevo tecnologie alternative, in particolare su scala industriale, era: “ma non possiamo usare quello che abbiamo già anche se è meno efficiente?”. La metathesiofobia, cioè la paura del cambiamento, si oppone alla visione creativa, all’innovazione reale, che non è però seguire la moda del momento. In particolare questo ultimo aspetto vale per un ricercatore accademico che spesso usa una nuova tecnologia o un nuovo protocollo senza preoccuparsi di uno sviluppo realizzativo sostenibile del suo processo, per fare cioè quello che ha sempre fatto, ma potendo così ottenere una nuova pubblicazione…
Ma, senza dubbio, è possibile implementare la situazione attuale e molti processi nuovi o migliorati producono meno scarti rispetto al passato. Diversi strumenti/strategie possono essere ora disponibili per i chimici che collaborano o che lavorano nelle industrie della “chimica fine” per raggiungere l’obiettivo della minimizzazione dei rifiuti.
Nell’ultimo numero de “La Chimica e l’Industria” sono state considerate diverse tecnologie di sintesi/estrazione con relativi vantaggi e problematiche da affrontare: elettrochimica sintetica, fotochimica, meccanochimica, spesso accoppiate con processi in continuo, utilizzo di microonde per riscaldamenti alternativi che, oltre a processi estrattivi qui descritti, possono trovare ampio spazio anche nella sintesi, utilizzo di reazioni in flusso che possono rendere possibili processi non realizzabili in reattori convenzionali. Alcune di queste tecnologie hanno un passato glorioso ma spesso erano e sono ancora viste come tecnologie “esotiche” e/o con problemi realizzativi ingenti. Questo è in parte vero ma qui nasce l’innovazione per realizzare apparecchiature industriali che riducano o eliminino gli attuali inconvenienti, grazie alla collaborazione tra chimici, ingegneri di processo e altri attori aventi competenze opportune. Di conseguenza, queste tecnologie potrebbero, anzi dovrebbero, entrare nel bagaglio culturale di molti chimici di sintesi ed essere applicate anche in processi su larga scala, come già avviene in altri Paesi, dove medie e grandi industrie e gruppi accademici interessati alle loro applicazioni hanno già intravisto enormi potenzialità realizzative per avere sintesi più sostenibili e maggiormente rispettose dell’ambiente.
Anche l’accademia può fare la sua parte proponendole come potenziali alternative a procedimenti più tradizionali. La creazione/implementazione, infine, di parchi tecnologici dotati di opportuni prototipi e personale adeguato dovrebbe permettere a ricercatori accademici ed industriali, a costi contenuti, di sperimentare protocolli di sviluppo di ricerche innovative.
Ovviamente esistono anche altre tecnologie interessanti qui non considerate che spero potranno essere oggetto di futura pubblicazione ne “La Chimica e l’Industria”.
Abbiamo ritenuto opportuno inserire in questo numero anche un contributo sull’uso dell’intelligenza artificiale che, oltre a permettere di progettare nuovi farmaci, dovrebbe offrire la possibilità di ottimizzare reazioni chimiche ed individuare nuovi protocolli e/o reagenti/catalizzatori per ottenere questo. L’uso dell’intelligenza artificiale può essere o diventare uno strumento potente anche per i chimici di processo a condizione che: a) siano disponibili set di dati completi e imparziali (molti set di dati storici sono distorti e ci si può aspettare, quindi, che funzionino male); b) la pratica della chimica cambi in futuro in modo significativo per fornire database adatti per l’addestramento di modelli di apprendimento automatico (machine learning, ML) e per verificare e valutare le risposte ottenute; c) una rappresentazione strutturale efficace porti a una migliore comprensione del meccanismo di una reazione.
Anche se tutti noi possiamo migliorare la nostra alfabetizzazione ML imparando alcuni concetti e linguaggio di base, ci sarà comunque bisogno di chimici qualificati e che sappiano collaborare efficacemente con esperti di data science e/o utilizzare gli strumenti stessi. A questo proposito, vorrei ricordare uno studio di modelling di molti anni fa [A. Zaliani, E. Gancia, O. Piccolo, effettuato in Chemi & Italfarmaco SpA] per progettazione/utilizzo di legandi enantiomericamente puri da utilizzare in sintesi asimmetriche catalizzate da complessi metallici e che si basava su calcoli in silico di angoli di legame (bite angles) per alcuni complessi difosfinici di rodio e sul confronto di proprietà elettroniche calcolate con i dati di potenziale ossidativo sperimentale (E0) dell’atomo P ottenuti all’università dal prof. Sannicolò e coll. mediante voltammetria ciclica. Questo studio, oltre ad essere a quel tempo innovativo e di estrema utilità applicativa a livello industriale, permise, inoltre, di capire perché due legandi chirali molto noti e di ampio utilizzo dessero una risposta totalmente diversa quando complessati con il rutenio in una reazione di interesse industriale.
Riprendendo per concludere il titolo, l’innovazione, a mio parere, è possibile, spesso è necessaria e può essere remunerativa in un tempo breve-medio, se ci si crede e si opera di conseguenza.
Prof. Oreste Piccolo
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