Al di là delle scoperte scientifiche, i Nobel di quest’anno raccontano delle storie umane notevoli. E sono storie non di successi, ma di fallimenti personali, dai quali però i protagonisti si sono rialzati.
Moungi G. Bawendi era uno studente brillante. Tanto brillante che riteneva di non aver bisogno di studiare. Ma questa convinzione si è infranta al suo primo esame di chimica a Harvard. “Presi in mano il foglio e lessi la prima domanda: non sapevo rispondere. E nemmeno alla seconda. Alla fine il mio punteggio fu F, quello più basso possibile nel sistema americano. Avevo ottenuto il voto peggiore di tutta la classe. E volevo lasciare tutto.” Per fortuna non lo ha fatto, altrimenti non avrebbe vinto il Nobel grazie alle sue ricerche sui quantum dots.
Se l’iniziale fallimento di Bawendi è stato solo una sua responsabilità, non possiamo dire lo stesso di Katalin Karikó, la biochimica vincitrice del premio Nobel per la medicina per i vaccini a mRNA, ma che in realtà avrebbe potuto meritare quello per la chimica. Karikó era nata nel1955 in Ungheria in una casa dove non c’erano acqua potabile, televisione e frigorifero. Fuggì negli Stati Uniti insieme al marito e alla figlia dopo aver venduto la macchina e cucito i soldi nell’orsacchiotto della sua bambina. Tuttavia, la sua vita non è stata facile nemmeno una volta avuto l’incarico come assistant professor alla Pennsylvania University. Nel 1995, mentre aveva ricevuto una possibile diagnosi di cancro e mentre suo marito era boccato da mesi in Ungheria per una questione di visto e lei era sola con sua figlia negli USA, l’università le comunicò la sua “demotion”, un termine che in italiano potremmo tradurre come “retrocessione”. In pratica, a causa della sua presunta incapacità di attrarre fondi, non sarebbe stata più considerata per la promozione a professoressa (“tenure”) e il suo salario sarebbe stato decisamente ridotto. Di fatto, nell’ambiente accademico americano, la “demotion” è un invito, nemmeno tanto cortese, a cambiare aria, ed è quello che di fatto accade nella quasi totalità dei casi.
Karikó però ha perseverato. E nonostante alcuni colleghi la evitassero e lei abbia parlato esplicitamente di sessismo verso di lei in ambito accademico, ce ne è stato uno che invece ha mostrato interesse per le sue ricerche sull’mRNA sintetico e iniziato una proficua collaborazione, dopo un incontro casuale facendo la fila alla macchina delle fotocopie. Ed è stato proprio grazie a questo collega che ha creduto in lei che ha potuto perfezionare la sua idea, che è stata una pietra miliare per sviluppare i vaccini a mRNA contro il COVID.
Queste vicende dimostrano che la via per la propria crescita scientifica, ed eventualmente per il successo, non è mai confortevole. Non è facile tornare in classe il giorno dopo che hai ottenuto il voto peggiore di tutti o discutere con i colleghi dopo che la “demotion” ha certificato il fallimento della tua ricerca. È fondamentale mettere da parte il proprio orgoglio, come hanno fatto Bawendi e Karikó. L’errore più grande sarebbe non interagire più con chi ci sta accanto, perché è proprio nella comunità che ci sono le risorse per ripartire e fare scoperte affascinanti.
E piuttosto che discriminare il o la collega in difficoltà, può essere vantaggioso tendergli la mano e collaborarci. Visto che chi incontrò Karikó alla macchina delle fotocopie era Drew Weissman, colui che ha condiviso con lei il Nobel 2023 per la Medicina.
Prof. Marco Bella
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