L’idrogeno rappresenta uno degli attori principali nella transizione ecologica ed energetica per contrastare il cambiamento climatico. Può essere impiegato come accumulo di energia nelle fonti rinnovabili, come eolico e fotovoltaico (che non producono energia in modo continuo), come carburante. Va inoltre considerato che il prodotto della combustione è l’acqua, in particolare nei settori “hard to abate” in termini di emissioni climalteranti la cui elettrificazione sarebbe problematica, come ad esempio veicoli pesanti, cementifici e acciaierie.
Al momento l’idrogeno può essere però definito un vettore energetico e non una fonte di energia, perché la sua produzione avviene tramite il consumo di altre fonti energetiche. L’idrogeno ottenuto bruciando fonti fossili come gas o carbone è definito “idrogeno grigio”, quello in cui si impiegano le fonti fossili con cattura dell’anidride carbonica prodotta è “idrogeno blu”. Se l’energia elettrica proviene invece da fonti rinnovabili come fotovoltaico o eolico allora abbiamo “idrogeno verde”.
Un recentissimo articolo giornalistico di Eric Hand sulla rivista Science descrive un campo di ricerca che sta avendo una fortissima espansione: quello dell’idrogeno “gold” o “d’oro”, cioè l’idrogeno che proviene direttamente dal sottosuolo. Nonostante ci siano numerosi riferimenti nella letteratura scientifica riguardo a emissioni di idrogeno che risalgono addirittura a Dmitrij Ivanovič Mendeleev (proprio lui, il papà della tavola periodica!) l’opinione più accreditata è stata fino a pochi anni fa che ce ne fosse pochissimo e che fosse inutilizzabile.
Nel 1987 durante lo scavo di un pozzo fu scoperto un giacimento di gas presso il villaggio di Bourakébougou, in Mali. Questo gas era altamente infiammabile, dal momento che uno degli operai che si avvicinò con una sigaretta in bocca innescò una potente esplosione e l’accensione di una fiamma di color azzurro, che richiese molti settimane per essere spenta. Il pozzo fu richiuso, ma la memoria di quell’evento era rimasta nella popolazione. Nel 2012, grazie a un team portato dall’uomo di affari Aliou Diallo il gas fu finalmente analizzato: si trattava di idrogeno puro al 98%. Nel giro di pochi mesi fu possibile installare un motore Ford da 30 kilowatt. In questo modo è stato possibile portare seppure in modo limitato l’elettricità nel villaggio e migliorare la vita degli abitanti: consideriamo che metà della popolazione del Mali non ha accesso all’energia elettrica.
Dopo la pubblicazione di questa scoperta su International Journal of Hydrogen Energy nel 2018, le pubblicazioni in questo campo sono cresciute in modo esponenziale.
Secondo alcune stime il giacimento del Mali potrebbe contenere 5 milioni di tonnellate di idrogeno. Al momento la produzione commerciale è stata ritardata dalla pandemia e dalla situazione di instabilità politica dello stato africano.
Mentre gli idrocarburi sono per lo più derivati da antichi depositi di sostanze organiche, le teorie più accreditate sulla formazione di idrogeno nel sottosuolo indicano che si possa formare tramite reazione ad alta temperatura di acqua con composti del ferro e silicio (reazioni di serpentinizzazione, il processo prevalente) oppure tramite il decadimento radioattivo. Dato che questi processi sono molto più rapidi rispetto a quelli che portano alle formazioni delle fonti fossili, l’idrogeno “gold” potrebbe essere addirittura una fonte rinnovabile perché si riforma in tempi brevi, non in ere geologiche. C’è anche una teoria controversa che indica che una certa quantità di idrogeno sia presente nella terra dalla sua formazione quattro miliardi di anni fa.
Quanto potrebbe cambiare il quadro energetico con produzioni significative di idrogeno “gold”? Di idrogeno nel sottosuolo ce ne potrebbe essere moltissimo. Secondo alcuni esperti intervistati da Science, abbastanza per i bisogni dell’umanità per centinaia di anni, anche assumendo che, analogamente a quanto avviene per tutte le risorse minerarie, solo il 10% possa essere effettivamente recuperato con convenienza economica.
Ma perché fino a oggi non lo abbiamo sfruttato? Inannazitutto l’idrogeno è incolore e inodore e anche difficile da analizzare. Anche se i depositi di drogeno possono essere associati a quelli di idrocarburi, l’idrogeno potrebbe accumularsi in posti diversi dove non abbiamo mai cercato in modo sistematico. I posti dove è più probabile trovarlo potrebbero essere i cartoni, ovvero le porzioni dei continenti più antiche come ad esempio alcune parti del Nord America, Australia occidentale e Africa. Oggi ci sono numerose compagnie, per esempio in Australia, che hanno acquistato i diritti per esplorare il sottosuolo per l’idrogeno.
Il pozzi di petrolio in superfice erano noti per millenni. Però solo solo nel 1859 quando in un paesino di 160 anime della Pennsylvania fu perforato il primo pozzo a 21 metri di profondità la tecnologia del petrolio è decollata. Lo shale gas (“gas da argille”) era noto e estratto in piccole quantità fin dagli anni ‘40. La sua produzione prima degli anni 2000 era marginale. Eppure, nel giro di un solo decennio ha raggiunto il 20% della produzione di gas di tutti gli Stati Uniti e si prevede che nel 2035 possa arrivare una percentuale vicina al 50% del totale. Grazie allo shale gas la geopolitica è cambiata perché gli Stati Uniti sono passati dall’essere un importatore a un produttore di gas, facendone crollare i prezzi a livello mondiale prima della crisi Ucraina.
Con le risorse provenienti dal sottosuolo, possono avvenire cambiamenti enormi in tempi molto brevi.
Da Chimico sono consapevole di quanto possa essere delicato maneggiare l’idrogeno. La maggioranza degli incidenti di laboratorio a cui ho assistito (non causato) sono stati causati proprio da questo gas. Gli Zeppelin, i grandi dirigibili tedeschi, erano riempiti di idrogeno e nel 1937 lo LZ 129 Hindenburg bruciò nel giro di soli 50 secondi mentre era in fase di attracco. Certo, va ricordato che l’idrogeno fu usato impropriamente a causa dell’embargo americano sull’elio, che era il gas per cui il dirigibile era stato progettato. Oggi però, esistono soluzioni tecniche per stoccare grandi quantità di idrogeno con elevati standard di sicurezza. Nel 2030 dovrebbe entrare in funzione l’idrogenodotto H2Med, che rappresenta un investimento di 2.5 miliardi di euro per portare 2 milioni di tonnellate annue di idrogeno verde prodotto da Spagna e Portogallo fino alla Francia. Al progetto si è unita molto recentemente anche la Germania.
La tecnologia per utilizzare l’idrogeno in gran parte già la abbiamo. Giusto tenere i piedi per terra, ma la disponibilità di idrogeno dal sottosuolo potrebbe davvero rivoluzionare il mondo dell’energia come lo conosciamo e favorire una transizione ecologica con un combustibile realmente green.
Qui l’articolo originale di Science
Qui la ripresa della notizia sul NY Times
Prof. Marco Bella
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